martedì 20 giugno 2017

VOLEMOSE BENE - ORTI CONTRO CEMENTO



Riappropriarsi di ciò che mangiamo, prendersi cura della terra, recuperare il contatto con la natura: vi sembra poco? Certo, magari è l’ago nel pagliaio, ma da qualche parte bisogna pure cominciare ad opporsi a uno stato delle cose che è completamente avverso all’essere umano.
[Nella fotografia, orti di Quartire Feltre, Lambrate, Milano]

Orti contro cemento
di Esther Vivas 

C’è vita sotto l’asfalto, anche se a volte è difficile da credere. Gli orti urbani, che proliferano nei nostri quartieri e nelle città, sono lì a dimostrarlo. Un esempio della volontà di ricostruire i legami tra la città e la campagna, tra la natura e le persone, di fronte a un’urbanizzazione che frammenta e isola.

Gli orti urbani, tuttavia, non sono nuovi. Le nostre nonne e nonni, che provenivano dalle campagne, spesso lavoravano il loro piccolo appezzamento di terra in città durante il dopoguerra. Non si chiamava «orto urbano», ma la funzione, relativamente parlando, era la stessa, nutrirsi con ciò che dà la terra. Oggi, anni dopo, queste esperienze hanno preso di nuovo e forzare una via attraverso la moda e la scelta di vita di fare un buco nel cemento tra i comuni.
Ci sono diversi tipi di orti urbani, da quelli che un’istituzione, pubblica o privata, vende o affitta nei quartieri, passando per quelli destinati a disoccupati per dare loro una funzione sociale, fino alle iniziative degli orti nelle scuole e alle singole esperienze dell’orto di casa o sui balconi. Tutti hanno in comune il desiderio di riappropriarsi di ciò che mangiamo, di prendersi cura della terra, di recuperare il contatto con la natura.
Data l’irrazionalità del sistema agroalimentare che estingue il sapere dei contadini, elimina la diversità del cibo, fornisce prodotti proveniente dall’altro lato del mondo, anche quando possono essere coltivate qui, gli orti urbani dimostrano che ci sono alternative. E ci mostrano da dove proviene ciò che mangiamo, impariamo ad apprezzare e riscoprire che siamo parte integrante dell’ecosistema.
Recuperare terreno dall’asfalto, mettere in discussione la logica urbanistica-predatoria delle città e creare nuovi modi di socializzazione sono altri elementi chiave. La resistenza e l’esplosione della creatività sociale si esprime anche in siti sporchi e abbandonati occupati, che si sono trasformati in una fonte di vita. Ortaggi e piante che crescono dove prima c’erano macerie, con l’aiuto del quartiere, significa costruire spazi comunitari e mutuo sostegno.
La crisi economica e sociale dà nuove funzionalità a queste iniziative; senza lavoro, senza casa, e sempre più spesso, senza cibo, gli orti urbani mostrano tutta la loro funzionalità pratica: forniscono cibo a coloro che non sono in grado di acquistarlo, riconsegnano la dignità a chi ne ha di meno.
Esperienze contro corrente, laboratori di resistenza che, non solo interrogano un particolare sistema agricolo e alimentare e un’idea di città, ma anche il modello che li contiene, il capitalismo, che fa dei luoghi nei quali viviamo posti inabitabili e ci nutre con cibi malsani. Non si tratta solo di lavorare la terra e di creare orti e giardini urbani, ma di generare uno sfondo dinamico con altri movimenti sociali, alleanze che favoriscono cambiamenti politici e cercano di mettere fine a questo sistema insostenibile.

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