Riappropriarsi di ciò che mangiamo,
prendersi cura della terra, recuperare il contatto con la natura: vi sembra
poco? Certo, magari è l’ago nel pagliaio, ma da qualche parte bisogna pure
cominciare ad opporsi a uno stato delle cose che è completamente avverso all’essere
umano.
[Nella fotografia, orti di Quartire Feltre, Lambrate, Milano]
Orti contro cemento
di Esther
Vivas
C’è vita sotto
l’asfalto, anche se a volte è difficile da credere. Gli orti urbani, che
proliferano nei nostri quartieri e nelle città, sono lì a dimostrarlo. Un
esempio della volontà di ricostruire i legami tra la città e la campagna, tra
la natura e le persone, di fronte a un’urbanizzazione che frammenta e isola.
Gli orti urbani,
tuttavia, non sono nuovi. Le nostre nonne e nonni, che provenivano dalle
campagne, spesso lavoravano il loro piccolo appezzamento di terra in città
durante il dopoguerra. Non si chiamava «orto urbano», ma la funzione,
relativamente parlando, era la stessa, nutrirsi con ciò che dà la terra. Oggi,
anni dopo, queste esperienze hanno preso di nuovo e forzare una via attraverso
la moda e la scelta di vita di fare un buco nel cemento tra i comuni.
Ci sono diversi
tipi di orti urbani, da quelli che un’istituzione, pubblica o privata, vende o
affitta nei quartieri, passando per quelli destinati a disoccupati per dare
loro una funzione sociale, fino alle iniziative degli orti nelle scuole e alle
singole esperienze dell’orto di casa o sui balconi. Tutti hanno in comune il
desiderio di riappropriarsi di ciò che mangiamo, di prendersi cura della terra,
di recuperare il contatto con la natura.
Data
l’irrazionalità del sistema agroalimentare che estingue il sapere dei
contadini, elimina la diversità del cibo, fornisce prodotti proveniente
dall’altro lato del mondo, anche quando possono essere coltivate qui, gli orti
urbani dimostrano che ci sono alternative. E ci mostrano da dove proviene ciò
che mangiamo, impariamo ad apprezzare e riscoprire che siamo parte integrante
dell’ecosistema.
Recuperare
terreno dall’asfalto, mettere in discussione la logica urbanistica-predatoria
delle città e creare nuovi modi di socializzazione sono altri elementi chiave.
La resistenza e l’esplosione della creatività sociale si esprime anche in siti
sporchi e abbandonati occupati, che si sono trasformati in una fonte di vita.
Ortaggi e piante che crescono dove prima c’erano macerie, con l’aiuto del
quartiere, significa costruire spazi comunitari e mutuo sostegno.
La crisi
economica e sociale dà nuove funzionalità a queste iniziative; senza lavoro,
senza casa, e sempre più spesso, senza cibo, gli orti urbani mostrano tutta la
loro funzionalità pratica: forniscono cibo a coloro che non sono in grado di
acquistarlo, riconsegnano la dignità a chi ne ha di meno.
Esperienze
contro corrente, laboratori di resistenza che, non solo interrogano un
particolare sistema agricolo e alimentare e un’idea di città, ma anche il
modello che li contiene, il capitalismo, che fa dei luoghi nei quali viviamo
posti inabitabili e ci nutre con cibi malsani. Non si tratta solo di lavorare
la terra e di creare orti e giardini urbani, ma di generare uno sfondo dinamico
con altri movimenti sociali, alleanze che favoriscono cambiamenti politici e
cercano di mettere fine a questo sistema insostenibile.
Nessun commento:
Posta un commento