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Il samnyāsa, “rinuncia totale”,
costituisce per gli indù l'ultimo stadio di vita tradizionale e secondo il
Vedānta, “il fine dei Veda”, riveste un ruolo estremamente positivo in quanto
libera l'essere dalla schiavitù delle false identificazioni conducendolo alla
Conoscenza. Il breve passaggio riportato, tratto dal
libro Śankara e il Kevalādvaitavāda, di
M. Piantelli, oltre a servirci per introdurre la ricetta del Paneer, evidenzia
ancora una volta l'importanza dell'alimentazione nello sviluppo armonico
dell'essere umano e delle sue facoltà; a ben pensare,
leggendo fra le righe si possono trarre diversi spunti di riflessione oltre che
convenire sulla bontà di questo cibo ancora oggi molto
diffuso in India.
“Fra i suoi unici
possessi (dell'asceta) figura la ciotola per ricevere le elemosine (kamandalu);
la questua si svolge secondo strette norme: solo in questo caso il samnyāsin
può entrare in un villaggio, il numero massimo di case presso cui può mendicare
è fissato a sette ed il tempo per farlo è quello necessario a mungere una
vacca. Il silenzio in occasione della questua può essere rotto per pronunciare
la parola “bhavat”, epiteto rispettoso diretto alla persona da cui si mendica;
si può ricevere solo riso (già cotto), dolci all'olio, pappa d' orzo, latte e
cagliata; se non si riceve nulla non è lecito proseguire la questua, ma ci si
dovrà accontentare d'acqua e radici, se se ne trovano. Uscito dal villaggio e
ritornato nel luogo ove temporaneamente risiede, il samnyāsin deve deporre il
cibo ricevuto in luogo puro, lavarsi mani e piedi e annunciare al sole quanto
gli è stato dato. Prima di accostarsi al cibo -cosa che può fare solo all'ora
quarta, sesta o ottava del giorno- è tenuto ad offrirne un poco agli animali e
a spruzzarlo con acqua. Può consumarne solo otto boccate. Gli è interdetto
danneggiare qualsiasi essere vivente i qualsiasi modo, sia pure cogliendo un
fiore, e toccare qualsiasi metallo, prezioso o meno”.