[Gli ebrei guidati da Mosè raccolgono la manna nel deserto, in un’opera di Nicolas Poussin]
La rappresentazione del cibo come dono del Creatore nella Toràh*
Nella Toràh una
delle prime immagini bibliche presenta il Creatore come colui che dona il cibo
a ogni creatura vivente: infatti, sul far del tramonto del sesto giorno della
Creazione, dopo aver dato vita ad animali ed esseri umani, sfama allo stesso
modo le bestie selvatiche, gli uccelli del cielo, gli esseri che strisciano e
l’essere umano, offrendo a ciascuno di questi lo stesso cibo: l’“erba che
produce il seme”, l’“albero in cui è il frutto che produce il seme” e “ogni
erba verde”[1].
Il Creatore, al momento della Creazione, elencando ciò di cui ci si deve
cibare, vieta all’uomo e agli animali di nutrirsi di altri esseri viventi
diversi dalle piante. Il Signore offre indicazioni alimentari diverse solo
successivamente, al momento in cui Noè e la sua famiglia escono dall’arca dopo
il diluvio universale, quando Egli concede all’uomo di cibarsi di altri esseri
viventi con il divieto di strappare la carne da un animale ancora vivo[2].Quest’ultimo
divieto è posto a salvaguardia del regno animale, poiché al figlio di Noè, che
può cibarsi di tutto il creato, non è consentito far soffrire inutilmente un
animale strappandogli la carne o prelevandogli del sangue senza averlo prima
ucciso.
Il popolo d’Israele
sperimenta la Provvidenza Divina anche successivamente, quando, dopo essere
stato liberato dalla schiavitù in Egitto, viene nutrito nel deserto per
quarant’anni, con il cibo del dono che viene chiamato “manna”[3]. Ciò
che gli ebrei chiamarono manna è un cibo a loro sconosciuto, di derivazione
celeste, che cade dal cielo e non spunta dalla terra. Gli ebrei si sfamano con
la manna secondo le regole loro affidate dal Signore che comanda di raccogliere
il cibo donato nella misura necessaria al fabbisogno giornaliero, poiché non è
possibile serbarlo per il giorno successivo senza che produca vermi e
imputridisca, salvo il sesto giorno della settimana, in cui la razione da
raccogliere è doppia per poter, il giorno successivo, osservare il riposo
assoluto dello Shabbat.
La caratterizzazione
del cibo come dono della Provvidenza Divina contribuisce a chiarire il valore
dell’invito espresso dal testo biblico a benedire il Nome di Dio dopo essersi
saziati[4] anche
attraverso il ringraziamento per ciò che è stato donato. Questa Benedizione
che si recita dopo il pasto, l’unica a essere esplicitamente prescritta dalla Toràh
viene denominata Birkhat ha-mazon ed è composta da quattro brevi
benedizioni, alcune delle quali di ringraziamento per il cibo ricevuto, altre
di ringraziamento per alcuni altri doni (la Terra d’Israele, l’Alleanza e la Toràh,
la liberazione dall’Egitto) e altre infine di richiesta (pietà per il popolo
d’Israele, per Gerusalemme e per il monte Sion)[5]. La
Birkhat ha-mazon deve essere recitata, su invito (zimmun) di uno
dei commensali, nello stesso luogo in cui si è mangiato, poiché è proibito
alzarsi dalla tavola senza aver prima benedetto e ringraziato il Nome del
Signore, avendo cura non solo di conservare briciole di pane e sale,
rispettivamente simbolo di abbondanza e della ritualità del Tempio di
Gerusalemme, bensì anche di togliere o almeno coprire i coltelli, simbolo di
violenza[6].
La tradizione rabbinica
aggiunge alla Birkhat ha-mazon altre Benedizioni legate al consumo del
cibo ed, in particolare, da recitare prima del pasto non solo per allontanarsi
da un atteggiamento vorace nei confronti di questo dono bensì anche per
ottemperare al dovere di benedire il Nome di Dio all’atto della fruizione di un
opera del Signore, poiché diversamente quest’atto corrisponderebbe a quello di
rubare in danno del Creatore e della congregazione di Israele[7].
Deve poi essere
richiamato un ulteriore episodio della storia biblica, nel quale il popolo
d’Israele, liberato dalla schiavitù nella terra d’Egitto, rinnova l’alleanza
con Dio[8] poiché
è proprio su questa rinnovata alleanza che si fonda l’impegno, liberamente
espresso dal popolo d’Israele[9], a
rispettare i precetti del Signore manifestatosi come provvidente e liberatore.
Valore spirituale e significato culturale delle regole alimentari ebraiche
Religione e
alimentazione, nell’Ebraismo, costituiscono da sempre i termini di un binomio
di forte pregnanza spirituale e cultuale, dalle molteplici declinazioni, nella
versione comunitaria come in quella individuale. Il cibo, nella tradizione
religiosa ebraica, costituisce non solo uno strumento di elevazione religiosa
bensì anche un fattore di identità, poiché il popolo di Israele rispettando le
prescrizioni alimentari rinsalda le proprie radici culturali, adegua la propria
vita ai precetti biblici e partecipa al progetto esistenziale cui è chiamato. Il
dovere di osservare le prescrizioni alimentari è imposto dalla legge ebraica
nel momento del raggiungimento della maggiore età, fissata in tredici anni per
i maschi e dodici per le femmine, e a ciò si aggiunge il dovere dei genitori di
illustrare ai propri figli, sin dai primi anni di vita, i principi generali e
le regole che disciplinano l’alimentazione ebraica. La tradizione ebraica
prescrive un numero consistente di regole alimentari tratte perlopiù da fonti
bibliche, cui pertanto si riconosce origine divina e che in quanto tali
rappresentano un capitolo fondamentale e imprescindibile della pratica
religiosa. Le norme ebraiche costituiscono modelli di comportamento specifici,
che nell’insieme concorrono a delineare un vero e proprio “sistema di vita”,
traducendosi in azioni positive e negative, corrispondenti a obblighi di fare e
di non fare.
La pratica quotidiana
dei rituali alimentari contemplati principalmente nella Toràh non
rappresenta esclusivamente una condotta personale di adesione e sottomissione
alla volontà salvifica del Creatore bensì anche un’esperienza collettiva che
rinnova nel tempo il patto di alleanza con Dio. Le prescrizioni alimentari
vanno considerate come una parte delle regole di comportamento: l’uomo,
accettando l’ordine posto da Dio nel processo di creazione del mondo, si
attiene alle diverse distinzioni realizzate, comprese quelle tra i cibi
proibiti e i cibi ammessi. Il termine Kasher (o kosher) sta proprio a
indicare l’idoneità del cibo a essere consumato o la conformità della sua
preparazione a determinate regole alimentari, l’insieme delle quali
convenzionalmente si suole definire kascherut: vero e proprio regime
alimentare. Il cibo non-kasher è qualificato taref, vale a dire
non adatto o improprio e quindi proibito. L’alimentazione si configura, poi,
come un rito sacro da celebrarsi in famiglia, centro della vita ebraica,
prestando attenzione non solo alla scelta degli alimenti bensì anche ai
procedimenti culinari e alle preghiere di benedizione nella loro successione
precisa stabilita dai cerimoniali religiosi.
La famiglia riunita
intorno alla tavola, che simbolicamente rappresenta l’altare, rimane per gli
ebrei lo spazio privilegiato per l’adempimento dei rituali alimentari che
regolano l’atto del nutrirsi, trasfigurando il naturale bisogno biologico in un
percorso di perfezione terrena al riparo dal male. L’alimentazione, in
occasione di festività religiose, ha una particolare funzione sociale: la
preparazione di specialità tipiche dotate di un potere evocativo, che
richiamando alla memoria riflessiva degli ebrei un episodio o un particolare
della storia di Israele, contribuiscono a rinsaldare, in queste circostanze
conviviali, i rapporti tra le persone e la solidarietà del gruppo.
[1] Genesi 1:29; 1:30. Si segnala
poi: C. Milani, “Il cibo nell’ebraismo”, in Buono e giusto. Il cibo secondo
Ebraismo, Cristia¬nesimo e Islam, Milano, Edizioni Terra Santa, 2015, pag. 7
[2] Genesi 9:1. Si segnala inoltre:
C. Milani, op. cit., pag. 8
[3] Esodo 16:12-36.
[4] Deuteronomio 8:11.
[5] Il testo della parte della
Benedizione Birkhat ha-mazon, che riguarda più esplicitamente il ringraziamento
per il cibo
ricevuto,
è riportato da: C. Milani, op. cit., pag. 15.
[6] Il dato è riportato da C.
Milani, op. cit., pag. 16. L’Autrice osserva che l’importanza della Birkhat
ha-mazon e dello zimmun è tale che non è richiesta l’età adulta dei commensali;
infatti il dovere di recitare la Benedizione sorge anche quando alla tavola
sieda un fanciullo di nove anni.
[7] Il dato è riportato da C.
Milani, op. cit., pag. 14. Si veda: M. Salani, op. cit., pag. 15: “Come ogni
altra realtà del mondo, gli ebrei si rapportano con il mangiare e con il bere
secondo l’idea della berakah, della benedizione.” Si segnala anche P. Pedrazzi,
op. cit., pag. 62. L’Autrice riafferma che: “Gli ebrei si rapportano con il
mangiare e il bere secondo l’idea della berarah, cioè della benedizione. D-o,
creatore, dona all’uomo ogni cosa necessaria alla sua esistenza, che pertanto è
benedetta da Dio stesso. Tutto è stato creato buono, ma non tutto è a
disposizione della creatura che, per distinguere ciò che è permesso utilizzare
da quello che gli è vietato, ha bisogno di norme che la orientino.”
[8] Esodo 24.
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