giovedì 30 aprile 2020

LA TERRA È L'ULTIMA ANCORA DI SALVEZZA

"Non vendete mai la terra perché vi dà da mangiare"; pressappoco così dicevano i vecchi nel secolo scorso, quelli che avevano vissuto due guerre mondiali e quanto è seguito. Anche oggi sembra che valga lo stesso adagio, ma con una differenza, le tragiche vicende del secolo scorso hanno unito, quello che sta succedendo oggi pare che venga "sfruttato" per dividere ancor più di come lo siamo. Spero davvero che il "ritorno alle origini" possa costituire un autentico rinno-vamento e un nuovo punto di ripartenza in cui le cose si dispongano e si rispettino per la natura e l'importanza che hanno.


Se nasce un bimbo o se muore un padre nulla e niente si ferma in campagna. La frutta, infatti, deve comunque essere colta, le capre – o le mucche – devono essere munte. E le pecore devono trovare un sempre nuovo andirivieni.
Gli animali non possono essere messi tra parentesi, non vanno in ferie e non conoscono Lockdown alcuno. Nel giorno della fine non serve a niente l’inglese: Coronavirus o meno, il latte reclama il bricco – altrimenti la bestia che lo produce va a morire – e così marcisce la frutta non colta o, ancora peggio, rinsecchisce tra i rami.

E davvero era un segno di dannazione, giusto a febbraio, quell’albero prossimo a gemmare ma carico di mandorle scheletrite: vecchie di un anno, ancora abbracciate alle loro scorze e però bucate dai tarli.
Un presagio di peste, quel grumo di mandorle morte impiccate tra le gemme vive: nessuno si era curato di fare la battitura in quel campo – questo era successo – e quel po’ di Ben di Dio si capovolgeva nella promessa di sventura.
Piantare alberi lungo il cammino è da sempre un viatico di salute – anzi, è un saluto – affinché non ci sia mai penuria; i rami che si allungano oltre i perimetri della proprietà non si potano mai, e mai vanno ripiegati all’interno, apposta per nutrire chi passa o chi si ferma per fare la foto al paesaggio: gli Erei, le Madonie e i Nebrodi che s’inghirlandano di ginestre, papaveri e margheritine per accostarsi a Etna, sempre imponente di malia.
È la terra di Cerere, madre di Proserpina, quella. La ragazza va e viene dalla bella stagione – e viceversa – alla vallata per vivificare sugli arbusti la linfa di cui si nutre il bisogno della gente. Le spighe sono prossime a maturare e quel mandorlo, oggi – sulla Strada statale 121 – ha già mutato i propri fiori nelle ghiotte e morbide drupe verdi.
È il morto che insegna a piangere e il presagio, dunque, è già decifrato: i frutti vivi sullo stesso ramo di quelli stecchiti significano empietà.
Ma nulla e niente si ferma. In quel punto c’è stata pioggia il 13 dicembre scorso per poi tornare il 25 marzo scorso, troppo poco per fare contento il massaro. Ma quel che si trova, si prende, sempre così ci si regola con le annate. E fare presto – adesso – significa come sempre, e però più di ogni altra volta, mettere mano alla zappa, governare i pascoli, dare dimora al fieno, vento alle spighe e la falce al grano.
Non si inverte la regola della ruota. Manco il tempo di chiudere la quarantena e si fa maggio, quindi giugno, ovvero la mietitura. Pare di vederle le ragazze, e i ragazzi con loro – tutti gli studenti che non hanno potuto finire scuola – precipitarsi alla volta dei poderi, in soccorso alle trebbiatrici, e così prendere la maturità al liceo della terra.
Per davvero, la vita dei campi, è tutta un’altra cosa. Può anche essere villeggiatura, la campagna; può perfino diventare una mistica dell’umanesimo ma come la talpa scava per se stessa, tra le zolle intrise del sudore della fronte, mai e poi mai potrà farlo per la storia.
Pare di vederli, tutti loro. Braccia restituite, tutte, all’agricoltura. La mobilitazione della gioventù, da subito, non può che essere contadina.
La terra, infatti, è la leva ultima e più inesorabile da cui l’umanità riscatta il proprio destino. L’applicazione immediata della tecnè è tutta di episteme agreste. Un diploma di perito agrario, già da subito, serve più di qualunque laurea in scienze della comunicazione. L’eterno andirivieni che resta, infatti, è quello di pane, paste e carne. È appunto ciò che rimane: il resto è scorie.

Pietrangelo Buttafuoco

Da Il Fatto Quotidiano del 6 aprile 2020

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