lunedì 26 febbraio 2018

VOLEMOSE BENE - IL FUTURO DEL CIBO



Propongo la prima parte del “Manifesto sul futuro del cibo” perché ritengo che la lettura di testi che forniscono informazioni in controtendenza possa essere di qualche utilità per acquisire qualche informazione in un mondo che tende a standardizzare tutto. Purtroppo anche la dove ci sono le migliori intenzioni spesso si finisce per collocarsi sotto qualche etichetta, ecologismo, biologismo, biodiversità, sostenibilità, ecc. che a mio avviso, cercando di definire e circoscrivere, riescono a complicare ciò che invece è molto semplice e riguarda prima ancora che l’ambito sociale, quello della coscienza personale. Basterebbe, se si vuole, recuperare uno stile di vita consono alle reali necessità, quello che nei paesi occidentali era ancora ravvisabile nelle nostre campagne trent’anni fa quando l’industrializzazione spinta non le toccava ancora; si rispettava la terra e quello che produceva, quindi non si sprecava e si rispettava la stagionalità; ma si commerciava anche e ci si impegnava per distinguersi nell’eccellenza della produzione e della lavorazione del prodotto. Basterebbe cominciare dal non lasciare il rubinetto dell’acqua più aperto del necessario, o pretendere di mangiare le ciliegie d’inverno, ma anche non lamentarsi se l’olio e il vino hanno un po’ di fondo e qualche mela non è proprio tirata a lucido: questo confermerebbe un primo piccolo passo in controtendenza, rispetto a una mentalità fagocitata da mille suggestioni.

Il MANIFESTO SUL FUTURO DEL CIBO


Parte Prima

INTRODUZIONE: fallimento dell'agricoltura industriale


La spinta crescente verso l’industrializzazione e la globalizzazione del mondo agricolo e dell’approvvigionamento alimentare mette in pericolo il futuro dell’umanità e il mondo naturale. Efficienti sistemi agricoli costruiti dalle comunità indigene locali hanno alimentato gran parte del mondo per millenni, mantenendo l’integrità ecologica e continuano a farlo in molte parti del pianeta. Ma oggi vengono rapidamente sostituiti da sistemi tecnologici e monocolture controllati dalle multinazionali e finalizzati all’esportazione. Questi sistemi di gestione manageriale a distanza incidono negativamente sulla salute pubblica, sulla qualità alimentare e nutritiva, sulle forme tradizionali di sussistenza (sia agricole che artigianali) e sulle culture indigene e locali, accelerando l’indebitamento di milioni di agricoltori e il loro allontanamento dalle terre che hanno tradizionalmente nutrito intere popolazioni, comunità e famiglie. Questa transizione aumenta la fame, i senza tetto, la disperazione ed i suicidi fra i contadini. Nel contempo degrada i processi su cui si fonda la vita sul pianeta e aumenta l’alienazione della gente dalla natura e dai legami storici, culturali e naturali degli agricoltori e di tutti gli altri cittadini con le fonti di cibo e sussistenza. Contribuisce, infine, a distruggere le basi economiche e culturali delle società, minaccia la sicurezza e la pace e crea un ambiente che produce la disintegrazione sociale e la violenza.

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Gli interventi tecnologici, venduti dalle multinazionali come panacea per la soluzione di tutti i problemi di “inefficienza della produzione su piccola scala”, e presumibilmente come rimedio alla fame nel mondo, hanno avuto esattamente l’effetto opposto. Dalla Rivoluzione Verde, alla Rivoluzione Biotecnologica, all’attuale spinta all’irradiazione degli alimenti, le intrusioni della tecnologia industriale nei sistemi tradizionali e naturali di produzione locale hanno aumentato la vulnerabilità degli ecosistemi. Hanno prodotto l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo e stanno diffondendo un nuovo tipo di inquinamento da organismi geneticamente modificati. Simili tecnologie e monocolture, sostenute e volute dalle multinazionali, inaspriscono gravemente i cambiamenti climatici sul pianeta con la loro forte dipendenza dai carburanti fossili, l’emissione di gas nocivi ed altre sostanze. Quest’ultimo fenomeno da solo – il cambiamento climatico – rischia di mettere a repentaglio l’intero fondamento naturale delle produzioni agroalimentari, ponendo le basi di conseguenze catastrofiche nel prossimo futuro. In più, se si contano i costi sociali, ecologici e le immense sovvenzioni necessarie, i sistemi di agricoltura industriale non hanno certo aumentato l’efficienza della produzione. E non hanno nemmeno ridotto la fame, al contrario. Hanno però aiutato la crescita e concentrazione di pochi colossi multinazionali agrofinanziari che controllano la produzione globale, a danno dei produttori locali di alimenti, della disponibilità di cibo e della sua qualità, oltreché della capacità di comunità e nazioni di arrivare all’autosufficienza negli alimenti strategici. Le tendenze negative della seconda metà del secolo scorso sono state accelerate dai recenti regolamenti commerciali e finanziari redatti da burocrazie globali di istituzioni internazionali come l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale ed il Codex Alimentarius, tra gli altri. Tali istituzioni hanno trasformato in leggi le politiche finalizzate a servire gli interessi delle multinazionali agricole facendo prevalere questi interessi su tutti gli altri, abolendo i diritti degli agricoltori e dei consumatori e riducendo in maniera drastica i poteri degli stati di regolamentare il commercio internazionale sulle loro frontiere, per mezzo di restrizioni adeguate alle proprie comunità. Le norme dell’Accordo sui Diritti di Proprietà Intellettuale relativi al Commercio del Wto (Organizzazione Mondiale del Commercio), hanno consentito alle multinazionali agricole di impadronirsi di gran parte delle risorse primarie di semi, alimenti e terreni agricoli a livello mondiale. La globalizzazione dei regimi di brevetto, compiacenti con gli interessi delle multinazionali, ha anche direttamente intaccato gli specialissimi diritti, originari e tradizionali, degli agricoltori, per esempio, di conservare i propri semi e proteggere le varietà indigene che le popolazioni rurali hanno sviluppato nei millenni. Altre norme del Wto incoraggiano, attraverso sovvenzioni statali, il dumping delle esportazioni di prodotti agricoli dai paesi industrializzati, aumentando dunque le immense difficoltà dei piccoli produttori agricoli dei paesi poveri a sopravvivere economicamente. L’esplosione del commercio a distanza di prodotti alimentari, generato dal sostegno alle produzioni per l’esportazione, ha un legame diretto con l’incremento del consumo di carburanti fossili per i trasporti, e contribuisce ulteriormente a cambiare il clima e ad espandere infrastrutture ecologicamente devastanti nelle aree indigene e naturali, con gravi conseguenze ambientali.
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L’intero processo di conversione dalla produzione alimentare su piccola scala per le comunità locali, alla produzione specializzata su larga scala per l’esportazione, ha portato anche al declino di tradizioni, culture, piaceri, e moltissime forme di collaborazione e convivialità, collegate per secoli ai circuiti locali di produzione e mercati comunitari. Ciò ha ridotto molto l’esperienza della produzione alimentare diretta e le gioie, a lungo celebrate, di condividere gli alimenti prodotti a livello locale su terre locali. Nonostante le considerazioni di cui sopra, c’è un numero crescente di motivi per essere ottimisti. Migliaia di nuove iniziative stanno fiorendo nel mondo per promuovere l’agricoltura ecologica, la difesa dei piccoli agricoltori, la produzione di alimenti sani, sicuri, culturalmente diversificati e la regionalizzazione della distribuzione, del commercio e della vendita. Una migliore agricoltura non solo è possibile ma si sta già realizzando. Per tutti questi motivi, ed altri ancora, dichiariamo la nostra ferma opposizione alla industrializzazione e globalizzazione della produzione alimentare ed il nostro impegno a sostenere il passaggio a tutte le alternative sostenibili di produzione, appropriate alle specificità locali e su piccola scala in armonia con i principi che seguono.

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