Portami
tu la pianta che conduce
Dove
sorgono bionde trasparenze
E
vapora la vita quale essenza;
portami
il girasole impazzito di luce.
Il girasole è originario delle americhe, fu scoperto in Perù nel XVI secolo dal conquistador spagnolo Hernando Pizarro che portò i semi in Spagna per farne dono a Federico II.
Malgrado il dato “storico”, l’origine
del mito del girasole si trova in Ovidio (43 a. C. - 17 d. C.), nel IV libro delle Metamorfosi, in
cui viene raccontata la storia della ninfa Clizia, che era perdutamente
innamorata del dio Apollo sebbene questi la respingesse. Clizia cominciò a
deperire, rifiutando di nutrirsi.
Così racconta Ovidio:
Da
allora, travolta dalla follia della sua passione, la ninfa,
giace
sulla nuda terra a capo nudo coi capelli scomposti.
Per
nove giorni, senza toccar acqua o cibo,
interrompe
il digiuno solo con rugiada e lacrime;
non
si muove da terra: non faceva che fissare nel suo corso
il
volto del nume, seguendolo con gli occhi.
Si
dice che il suo corpo aderisse al suolo e che un livido pallore
trasformasse
parte del suo incarnato in quello esangue dell'erba;
un'altra
parte rossa e un fiore simile alla viola le ricopre
il
volto. Malgrado una radice la trattenga, sempre si volge
a lei
verso il suo Sole e pur così mutata gli serba amore.
Del resto Clizia in greco significa proprio “colei
che si inclina, si muta” e “colei che ha la dedizione verso qualcosa”, da klysis inclinazione e klino piegarsi, inclinarsi quindi
anche dopo la metamorfosi fu fedele alla qualità del suo nome cambiando
inclinazione durante il giorno a seconda dello spostamento del Sole nel cielo,
come il girasole appunto. [Nell'immagine Clytie di Evelyn Morgan]
Nella civiltà Inca era considerato il
simbolo della sovranità: il dio re, personificazione terrena del sole divino,
spesso teneva in mano uno scettro che culminava con un girasole, immagine
vegetale del sole. Infatti questo fiore ama a tal punto la luce del sole, da
orientare la calatide verso il punto di maggiore illuminazione, a sud. Gli Inca
conoscevano bene le proprietà nutritive dei semi e ricavavano fibre dal fusto e
dalle foglie. Ci volle invece tempo prima che gli europei scoprissero che era
una pianta oleaginosa. L’olio che se ne ricava, seppur ha poco sapore, è
ipocolesterolemizzante ed è uno dei migliori grassi alimentari. La medicina
russa utilizza le foglie e i fiori per curare le malattie polmonari e della
gola.
Anche nelle nostre campagne fra giugno e
luglio questi “giganti bonari” si ergono sul loro busto alto inebriandosi di
sole sino al momento del raccolto che li vede esausti ed appassiti.
Questa immagine deve aver suggerito a
Eugenio Montale la celebre quartina di Ossi
di seppia:
Portami
tu la pianta che conduce
Dove
sorgono bionde trasparenze
E
vapora la vita quale essenza;
portami
il girasole impazzito di luce.
Una favola andalusa che si riferisce ai
primordi dell’umanità, racconta di due fratelli, uno buono, l’altro cupo e
invidioso. Un giorno il primo domandò: “Perché mi sfuggi sempre? Siamo soli al
mondo e dovremmo amarci”. Ma l’altro rispose: “a me piace vivere solo. La tua
presenza mi importuna, mi irrita”. Qualche anno dopo, il giovane buono si
ammalò gravemente e sentendosi morire chiamò il fratello al capezzale. “Sto per
andarmene” gli disse “ma vorrei serbare un buon ricordo di te. Ti prego fammi
un sorriso, almeno una volta”. Ma l’altro taceva, scuro in volto. “Tanto mi odi!?”
esclamò il fratello buono. “Ricordati che l’odio e l’egoismo sono i torturatori
della vita. L’amore è invece luce”. Furono le ultime parole. Poi due angeli ne
condussero l’anima al Signore che, intenerito dalla sua bontà disse: “Di te
farò l’astro più bello dell’universo”. Quando il giovane malvagio vide ardere
il sole nel cielo, vi riconobbe il sorriso del fratello: “Ecco l’amore che ho
respinto!” esclamò commosso. “Ora voglio contemplarlo per tutta l’eternità”. E
il Signore lo trasformò nel girasole.
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