A pensarci bene,
basterebbe sgomberare la testa da tutti gli slogan con cui è infarcita per
riacquistare un minimo di coscienza critica che sappia riconoscere il “bene
comune” al di là dei colori ideologici preconfezionati. Sappiamo tutti la
rilevanza che ha la “questione alimentare”, sia come diritto al cibo, come diritto
alla terra che lo produce e controllo sulla qualità, quindi sulle attività che lo lavorano e lo “trasformano”. Forse per questo alcuni fra gli
“slogan sociali” più ingombranti gravitano proprio attorno alla “difesa della
terra”: ambientalismo tout court, questioni climatiche, surriscaldamento
globale e chi più ne ha più ne metta. Verrebbe da chiedersi allora: “Può
esserci difesa della terra, senza che vi sia difesa del popolo che la abita?”.
La domanda non vuole essere affatto retorica, semmai, “partendo dal basso” -dato
che nel mondo moderno non si riconosce più agli autentici Principi la funzione
di orientamento dell’azione- costituisce una “provocazione” per smascherare i
lupi travestiti da agnelli. E se andassimo
a guardare bene nell’armadio di tanti “filantropi”, la commistione col male che
con le loro “attività benefiche” dicono di voler aiutare a curare, risulterebbe
evidente, in modo imbarazzante, per chi avendolo sotto gli occhi pure non lo
vede ancora.
“La terra a chi la lavora”
di
Esther Vivas
La terra è una fonte di ricchezza per
pochi, qui e dall’altra parte del pianeta. In Spagna il boom immobiliare ha
lasciato un’eredità di sviluppo urbano rovinoso, aeroporti senza aerei (quasi),
città fantasma, enormi progetti infrastrutturali obsoleti … E nel Sud globale,
il desiderio di trarre profitto dalla terra ha cacciato contadini e popoli
indigeni e imposto monocolture da esportazione, vaste infrastrutture a
esclusivo vantaggio del capitale e saccheggio delle risorse naturali.
L’oligarchia al potere approfitta e
regge le fila dietro le quinte, negoziando equivoci piani di sviluppo
urbanistico, riclassificando la terra agricola per permettere che sia usata per
l’edilizia. I casi di corruzione si moltiplicano. La cultura delle “bustarelle”
è all’ordine del giorno ovunque. E lo stesso vale per il nuovo dispotismo
dell’alta finanza a spese dei cittadini e del nostro territorio. E altrove la
storia si ripete uguale. Governi corrotti sono i partner migliori per gli
investitori che vogliono acquisire terra rapidamente e a basso prezzo. Secondo
un rapporto dell’Oxfam, ogni sei giorni investitori stranieri vendono un’area
equivalente a sei volte la città di Londra. È la febbre della terra.
La privatizzazione e l’accaparramento
dei terreni è all’ordine del giorno. Che cosa è più redditizio di ciò di cui
abbiamo necessità per vivere e per mangiare? La crisi finanziaria e alimentare, scoppiata nel 2008, ha dato vita,
come è ben documentato dall’organizzazione internazionale GRAIN, a un nuovo
ciclo di accaparramento delle terre su scala mondiale. I governi dei paesi
dipendenti dalle importazioni di alimenti, al fine di assicurare la produzione
di cibo oltre i propri confini per la propria popolazione, così come
l’industria agroalimentare e gli investitori (fondi pensione, banche), affamati
di investimenti nuovi e redditizi, hanno acquisito terre fertili nel Sud. È una
dinamica che minaccia la sicurezza agricola e alimentare di quei paesi.
I popoli indigeni, cacciati dai loro
territori, si stanno mettendo alla testa della lotta contro la privatizzazione
della terra. Non è una lotta nuova; è una lotta che fu capeggiata da Chico Mendes, cavatore di gomma, noto
per la sua lotta in difesa delle Amazzoni e assassinato nel 1988 dai
latifondisti brasiliani. Chico Mendes contribuì a creare l’Alleanza dei Popoli
della Foresta, comprendente popoli indigeni, cavatori di gomma, ambientalisti,
contadini contro le multinazionali, per rivendicare la riforma fondiaria e
boschiva con la proprietà comunitaria della terra e il suo utilizzo a beneficio
delle famiglie contadine. Come diceva: “Non
c’è difesa della foresta senza difesa del popolo della foresta.”
Qui, in Spagna, l’Unione dei Lavoratori
Agricoli (SOC), parte dei Sindacato dei Lavoratori dell’Andalusia (SAT), è
stata uno degli esponenti chiave nella lotta per la terra e i diritti dei
lavoratori agricoli. Per più di un anno hanno occupato e lavorato la fattoria
di Somonte, a Palma del Rio, nella provincia meridionale di Cordova, che il
governo regionale dell’Andalusia si preparava a vendere anche se 1.700 persone
sono disoccupate nella piccola cittadina. Obiettivo degli occupanti è che
questa fattoria sia lavorata da cooperative di disoccupati, piuttosto che
passare nelle mani di banchieri e latifondisti. Somonte è un simbolo della lotta
della SOC e della SAT che è impegnata in sforzi simili altrove.
In Catalogna oggi un esempio chiaro di
come l’uso della terra per interessi privati abbia la precedenza su quelli
sociali e collettivi è Can Piella, una casa colonica del diciassettesimo secolo
con terre annesse che è una delle poche aree rurali rimaste nella Barcellona
metropolitana. Dopo essere rimasta abbandonata per dieci anni è stata occupata
da un gruppo di giovani. Hanno creato un’associazione, che attualmente ha circa
duemila membri, che ha restaurato la proprietà, ripreso le coltivazioni,
rivitalizzato l’ambiente circostante aprendolo agli abitanti delle vicine aree
di Llagosta, Santa Perpetua de Mogoda e Montcada i Reixac. Ora, dopo tre anni e
mezzo di attività, un ordine di sfratto minaccia il progetto. I proprietari che
per un decennio avevano abbandonato la finca e non hanno programmi per essa ora
la rivogliono indietro.
Agli inizi del ventesimo secolo Emiliano Zapata, contadino e figura
guida della Rivoluzione Messicana, rivendicò: “La terra a chi la lavora”. Sono passati più di cento anni e questo
continua a essere uno slogan attuale.
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