martedì 12 settembre 2017

TRADIZIONE E CIBO - LA VALENZA SIMBOLICA DEL CIBO NEL MONDO INDIANO

In un altro post ho fatto riferimento alla Traittirîya Upanishad per evidenziare come l'alimento per gli Indù sia assimilabile se non addirittura coincidente con il Brahman stesso, la Realtà Assoluta. Prima di "dare la parola"  a Laura Scopela, riportando un estratto di "Le prescrizioni alimentari di carattere religioso", vorrei aggiungere per completezza come si conclude  l'Anuvâka 2 dell'Adhyâya II della Umanishad menzionata:


In vero, al di là di quello, che è questo [corpo] costituito dall’essenza del cibo, vi è un altro e [più] interno sé [=veicolo-corpo] costituito di energia vitale. Da questo [corpo costituito di energia vitale] è riempito quello [costituito di cibo]. In vero, questo stesso [veicolo costituito di energia vitale] ha ancora fattezza umana. Questo [sé di energia vitale] dalla fattezza umana è conforme alla fattezza umana di quello [più esterno costituito di cibo].

Di questo, il prāna[1] stesso è il corpo. 
Il vyāna[2] è il lato destro [meridionale]. 
L’ apāna[3] è il lato sinistro [settentrionale]. 
Lo spazio è l’Ātmā [il tronco]. 
La Terra è l'estremità quale base stabile.  
Anche a tale riguardo vi è questo Śloka[4].

Questo consente di lasciare intravedere molto di più di quanto non possa emergere da scritti come quello della Scopel che pure hanno l'indubbio merito di sensibilizzare e avvicinare il pubblico a un argomento così importante come quello dell'alimentazione tradizionale, proponendolo inoltre in una prospettiva non molto usaule per questi tempi che il lettore interessato potrà senz'altro approfondire per conto proprio.



La valenza simbolica del cibo nel mondo indiano
di Laura Scopel



L’Induismo, confessione religiosa che in Italia conta circa cinquemila fedeli e tiene rapporti con cinquanta­mila induisti immigrati, ha fatto dell’alimentazione uno dei suoi dogmi di maggior spessore. Il cibo nelle sue diverse modalità di cottura e consumazione, sommate alle differenti fasi di elaborazione che il corpo umano gli riserva, ha assunto una valenza simbolica e spirituale fin dal Vedismo, considerato ormai unanimemente l’origine di quello che noi oggi definiamo Induismo.
Gli induisti ritengono che la posizione sociale di un uomo o di un gruppo dipenda anche dagli alimenti che rifiuta di mangiare, poiché l’appartenenza a un casta gerarchicamente superiore comporta maggiori restrizio­ni alimentari.
Il cibo è un veicolo di scambio poiché attraverso l’alimentazione si condividono meriti e demeriti sociali e, inoltre, può comportare conseguenze negative sul piano del ciclo delle rinascite poiché, se proibito, conta­mina i tessuti del corpo in cui si è trasformato. La marginalità sociale trova spesso espressione attraverso riferimenti alla sfera del cibo invero quelli che vengono chiamati “fuori casta” vengono definiti “gente che cucina cani”.

L’importanza del processo dell’alimentazione è testimoniato dal fatto che il cibo, nelle Upanishad, viene celebrato come Brahman, l’Assoluto, e viene identificato con la vita stessa poiché la fame è morte, la sazietà è compiutezza.
Il ciclo della pioggia e il sacrificio sono elementi fondamentali del modo religioso induista e a essi rimane collegato il cibo in un processo causale in forza del quale la pioggia che nasce dal sacrificio, crea il cibo.
I princìpi generali istitutivi possono essere ripartiti in princìpi meramente spirituali e princìpi concre­tamente procedimentali. Tra i primi vanno annoverati quelli inerenti al valore vitale degli alimenti. Il cibo è vita e la vita è il cibo poiché quest’ultimo rappresenta l’opposizione alla morte che è fame e miseria. Ne deriva l’importanza della purezza delle pietanze, del rituale e il profondo rispetto morale che a loro deve essere garantito.
L’insieme delle norme procedimentali, in parte attuazione strumentale di quelle generali, trova il suo fon­damento in una vasta categoria di regole e riti. La commensalità, ad esempio, ritenuto che non tutti sono qualificati a consumare gli stessi cibi, può essere fonte di contaminazione che potrebbe tradursi in una assen­za di purezza e, conseguentemente, la persona che gode di un’alta considerazione sociale può condividere il pasto con poche persone per non veder svilito il suo status sociale. La necessità di preservare il mangiatore dal rischio di contaminazione deve però essere contemperata dall’obbligo di condivisione del cibo il quale, se serbato gelosamente, non reca frutto.
L’attività di cottura non deve mai essere fonte di sprechi e deve sempre tener conto della razione adibita a sacrificio per gli dei. Nessuno deve essere destinatario di avanzi ma non si deve nemmeno assumere cibo in maniera esagerata o sprecare sostanze nutritive. È poi molto importante la posizione assunta durante la nutrizione: rivolgersi a est significa lunga vita, ovest prosperità, nord integrità e sud fama.
L’insieme dei principi appena descritti trova diretta applicazione nel procedimento che opera la trasfor­mazione del cibo in sostanza per corpo e mente, indissolubile binomio, dove sortisce effetto la tripartizione che segue: parte grossolana generatrice di escrementi, quella mediana di carne e sangue, mentre quella più sottile utile alla mente e al respiro. L’acqua bevuta si suddivide ugualmente in tre parti: la parte più grossolana diventa urina, la mediana sangue, la più sottile respiro.
Già in epoca vedica si denotava un forte simbolismo alimentare: il fuoco si ciba delle piante, il vento delle acque, il sole della luna e l’uomo del bestiame. Le figure del mangiatore e quella del mangiato, nei testi normativi, hanno sempre avuto ruolo opposto in quanto rappresentative di mobilità e immobilità, immagini, queste ultime, che assumo significato anche nella dimensione sessuale, dove il marito è mangiatore e la donna mangiata.
Il sacrificio vedico si riduce a una donazione nel fuoco di un qualche alimento; esso rappresenta la “cottura del mondo”, la trasformazione da una condizione primordiale, caratterizzata da crudezza e ostilità, verso una commestibilità, sinonimo di maneggiabilità.
Il processo di cottura assume importanza per la determinazione di due differenti preparazioni: kakkā e pakkā. La prima riguarda un procedimento mediante bollitura, la seconda invece attiene a una frittura con grasso animale, vegetale, burro o olio di sesamo, senape e simili. La procedura di bollitura sarà destinata all’alimentazione quotidiana della famiglia in senso stretto, con tutti i rischi di contaminazione annessi che faranno così aumentare le prescrizioni rivolte a garantirne purezza.
La seconda pratica invece, dopo la frittura, prevede anch’essa la bollitura, così da ridurre ancor più le im­purità. Il combustibile, gli utensili, i contenitori, saranno tutti soggetti a norme atte a garantirne la purezza.
In alcuni passi delle Upanisad, il simbolismo si ricava dal concetto di pienezza, intesa come sazietà inesau­ribile, compiutezza: “Pieno è quello, pieno è questo. Dal pieno nasce il pieno. Se pur si riprende il pieno dal pieno rimane intatto il pieno”.
Si narra inoltre che Dio creò sette tipi di cibo, anche se la purezza estrema del brahamano la si trova nella pratica vegetariana più stretta. Essa impone il divieto di consumare animali, uova e sostanze vegetali come aglio e cipolla, ritenute possibile fonti di contaminazione. La pratica del vegetarianismo attrae adepti anche dalle classi sociali superiori, dove si giunge per coerenza ad affermare che gli animali considerati commestibili devono essere essi stessi vegetariani, onde evitare l’avvio di un pericoloso circolo vizioso che sembrerebbe escludere solamente la categoria degli animali selvatici.
I passi normativi si fanno spesso sfumati e contraddittori, come a voler edulcorare eticamente e moral­mente ciò che è pratica consolidata. Così, chi mangia carne sarebbe in parte giustificato nel momento in cui destina una parte agli dei e agli antenati.
Due classificazioni sono poi operate: la prima in ambito medico, prevede la ripartizione degli alimenti in base alle loro caratteristiche gustative: dolce, acido, salato, pungente, amaro, astringente. Sapori che si presentano come fondamentali per la terapia di diverse patologie, facendo del cibo un’importante medicina preventiva. La seconda è legata alla cosmologia del samkhya e classifica gli alimenti in tre qualità che compon­gono così il principio oggettuale della prakrti: luminosità, dinamicità, inerzia.
Si delineano poi, in base ai caratteri umani, le preferenze per le percezioni organolettiche dei cibi. Pie­tanze che favoriscono la concentrazione e l’attività intellettuale vengono preferite dal tipo umano sattvico (cerebrotonico). Il tipo umano rajasico (somatotonico) predilige cibi che aumentano la massa muscolare e la forza fisica. Il tipo umano tamasico (viscerotonico) sceglie cibi che ottundono la mente e suscitano torpore.
Il cosmo non si reggerebbe senza la continua pratica del sacrificio, ragion per cui l’Induismo le dà rilievo assoluto, tramutandolo nella immolazione di se stessi. Il fuoco, utilizzato nel processo di cottura, fa da inter­mediario tra gli uomini e gli dèi, generando un’energia e un ardore ascetico in forza del quale tutto ciò che viene cucinato appartiene agli dèi, e solo la restante parte agli uomini. L’offerta di cibo alla divinità e la sua ridistribuzione non sono mai vane, di contro il devoto riceverà grazia e beatitudine. Lo scambio che si attuerà, soprattutto se avvenuto in forma di prasāda nel tempio, conferirà grande merito al fedele.
Il sacrificio vedico può essere descritto come un’oblazione nel fuoco di una qualche sostanza alimentare che, in origine, era costituita da una vittima animale. Il sacrificio della vittima avviene per soffocamento al fine di evitare spargimento di sangue che potrebbe contaminare l’area sacrificale. La vittima, attraverso for­mule eufemistiche, presta il suo consenso a essere uccisa e questo consenso distingue il sacrificio dall’ucci­sione ma la stessa vittima è meramente una vittima vicaria poiché il committente, ovvero colui che incarica i bramini di compiere il rito, immola simbolicamente se stesso, acquisisce i meriti che derivano dalla pratica sacrificale compiuta dai sacerdoti e inoltre consuma, per sopravvivere, quel che resta del frutto del sacrificio offerto agli dèi. Il mondo, attraverso il sacrificio, diviene “cotto” e quindi padroneggiabile dall’uomo poiché l’essere crudo è sinonimo di ostilità all’essere umano.
Un rito comune dell’Induismo contemporaneo è quello della “adorazione” (puja): l’icona o l’immagine cul­tuale di una divinità posta in un ambiente domestico viene considerata ospite e quindi destinataria dei sedici atti di omaggio a questi riservati. L’offerta di cibo rientra tra questi atti di omaggio. La divinità destinataria dell’offerta di cibo, dopo averne incorporato il principio nutritivo, restituisce, in forma di grazia, al devoto la forma del cibo, affinché quest’ultimo la consumi con il suo favore.
Il rito della cremazione è un rito che rimanda alla cottura del mondo poiché è un processo che, per certi aspetti, è simile alla preparazione di un cibo e a esso è strettamente legata la figura del “rinunciante”, cioè di colui che ha scelto di rinunciare alle lusinghe mondane per intraprendere un percorso ascetico irreversibile. Il rinunciante, nel momento in cui abbraccia la rinuncia, assiste alla cremazione della sua effige, si impegna a vagare incessantemente e a nutrirsi di questua rimanendo dispensato dalla restrizioni alimentari, poiché la sua alimentazione dipende dalla carità altrui. Il corpo fisico di un rinunciante, sopraggiunta la morte, dovrà essere inumato o abbandonato alla forza purificatrice di un fiume sacro, non potendo la cremazione essere nuovamente eseguita.
I riti funebri della cremazione e quelli postfunebri rendono il trapassato un antenato ovvero un personag­gio destinato a irradiare la propria benefica influenza sulle generazioni in vita della sua stirpe. Appaiono stret­tamente collegati al tema del cibo i riti postfunebri di tipo śrāddha, oblazioni di alimenti destinate a costruire il corpo dell’antenato. Tali oblazioni di cibo (pinda), polpette di riso pressato unito a sostanze dolcificanti e adraganti che gli conferiscono la forma sferica, si propongono lo scopo di costruire per il defunto un corpo di fruizione delle offerte. È significativo, al riguardo, che il termine “pinda” sia usato anche per indicare una certa fase di sviluppo dell’embrione, ancora indifferenziato, privo di membra separate e distinte. La sposa del figlio del defunto, qualora desideri concepire un figlio, è l’unico soggetto abilitato a consumare i pinda, che svelano il loro significato simbolico poiché il latte che li impasta rappresenta il latte materno, mentre il riso e il burro identificano il seme maschile che deve, per poter maturare, trovare una nuova dimora nella matrice. Il defunto, in assenza di offerte alimentari, è condannato a diventare un mostro nottivago e il suo corpo è destinato ai tormenti infernali.
L’offerta di cibo ai defunti, che costituisce il fulcro del śrāddha, può entrare in contraddizione con la teoria del Karman e della rinascita poiché il principio cosciente individuale dovrebbe lasciare il corpo del defunto per entrare in un corpo successivo e invece il corpo etereo dell’antenato è capace di gustare l’essenza nutritiva dei pinda sino a cento anni dopo la morte. L’antenato inoltre, gratificato dalle offerte alimentari, potrebbe do­nare ai propri discendenti ricchezze e addirittura liberazione dal ciclo delle rinascite e ciò in violazione delle norme di retribuzione delle azioni.

 






[1] Soffio vitale che si manifesta nella respirazione pur non essendo la respirazione
[2] Uno dei 5 soffi vitali che pervade la totalità del corpo sottile; provvede alla parte centrale, quindi alla regione del cuore.
[3] Uno dei 5 soffi vitali, è il soffio discendente che sovraintende la parte che va dal plesso solare ai piedi; presiede alle funzioni escretive e al parto.
[4] Per colui che così conosce, ossia seguendo queste istruzioni, si consegue stabilità (ksema) e la preservazione di ciò che si è acquisito, e per questo occorre meditare sul Brahman

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