A pensarci bene,
basterebbe sgomberare la testa da tutti gli slogan con cui è infarcita per
riacquistare un minimo di coscienza critica che sappia riconoscere il “bene
comune” al di là dei colori ideologici preconfezionati. Sappiamo tutti la
rilevanza che ha la “questione alimentare”, sia come diritto al cibo, come diritto
alla terra che lo produce e controllo sulla qualità, quindi sulle attività che lo lavorano e lo “trasformano”. Forse per questo alcuni fra gli
“slogan sociali” più ingombranti gravitano proprio attorno alla “difesa della
terra”: ambientalismo tout court, questioni climatiche, surriscaldamento
globale e chi più ne ha più ne metta. Verrebbe da chiedersi allora: “Può
esserci difesa della terra, senza che vi sia difesa del popolo che la abita?”.
La domanda non vuole essere affatto retorica, semmai, “partendo dal basso” -dato
che nel mondo moderno non si riconosce più agli autentici Principi la funzione
di orientamento dell’azione- costituisce una “provocazione” per smascherare i
lupi travestiti da agnelli. E se andassimo
a guardare bene nell’armadio di tanti “filantropi”, la commistione col male che
con le loro “attività benefiche” dicono di voler aiutare a curare, risulterebbe
evidente, in modo imbarazzante, per chi avendolo sotto gli occhi pure non lo
vede ancora.
“La terra a chi la lavora”
di
Esther Vivas
La terra è una fonte di ricchezza per
pochi, qui e dall’altra parte del pianeta. In Spagna il boom immobiliare ha
lasciato un’eredità di sviluppo urbano rovinoso, aeroporti senza aerei (quasi),
città fantasma, enormi progetti infrastrutturali obsoleti … E nel Sud globale,
il desiderio di trarre profitto dalla terra ha cacciato contadini e popoli
indigeni e imposto monocolture da esportazione, vaste infrastrutture a
esclusivo vantaggio del capitale e saccheggio delle risorse naturali.