“Occorre cautelarsi nei riguardi di quel male che ha
il nome di avidità. Si usi pertanto la carità come medicinale e così
venga considerato il nutrimento che viene offerto e ricevuto. Non si desideri
quindi un cibo raffinato”.
Sri Shankarâchârya
Addentrandosi un po' nelle norme alimentari indù (senza ovviamente aver la pretesa di essere esaustivi) si ha la sensazione di entrare in un ginepraio in cui è più facile perdersi che trovare quello che si stava cercando; per tale ragione è opportuno non scordare mai che essendo l'India la culla della Tradizione, nella sua società le basi non possono che essere solide e i principi precisi, meglio dire immutabili, quindi non si possono leggere certi dati con le categorie di pensiero moderne che tendono a dividere piuttosto che cogliere l'elemento unificante di tutto. Per tali ragioni anche lo "stile alimentare" di questa civiltà, come di tutte quelle che hanno ancora una connotazione tradizionale, deve essere considerato nella prospettiva che l'alimento è parte integrante di un Rito che ha come scopo primario di mantenere l'armonia e indicare la strada che ricongiunge gli esseri al loro Principio Eterno. Quindi il pasto di un uomo o del suo gruppo di appartenenza, rivela quella che è la natura propria e l’aspirazione che hanno: cosa si mangia e cosa si rifiuta di mangiare; come si mangia e dalle mani di chi si accetta cibo stabiliscono un ordine gerarchico naturale e “il principio, per dirla con una boutade, è che più la mia casta è elevata più sono schizzinoso ed esigente in tutte queste cose.