mercoledì 14 marzo 2018

TRADIZIONE E CIBO - VALORE SPIRITUALE E SIGNIFICATO CULTURALE DELLE REGOLE ALIMENTARI EBRAICHE


         [Gli ebrei guidati da Mosè raccolgono la manna nel deserto, in un’opera di Nicolas Poussin]

La rappresentazione del cibo come dono del Creatore nella Toràh*


Nella Toràh una delle prime immagini bibliche presenta il Creatore come colui che dona il cibo a ogni creatura vivente: infatti, sul far del tramonto del sesto giorno della Creazione, dopo aver dato vita ad animali ed esseri umani, sfama allo stesso modo le bestie selvatiche, gli uccelli del cielo, gli esseri che strisciano e l’essere umano, of­frendo a ciascuno di questi lo stesso cibo: l’“erba che produce il seme”, l’“albero in cui è il frutto che produce il seme” e “ogni erba verde”[1]

Il Creatore, al momento della Creazione, elencando ciò di cui ci si deve cibare, vieta all’uomo e agli animali di nutrirsi di altri esseri viventi diversi dalle piante. Il Signore offre indicazioni alimentari diverse solo successivamente, al momento in cui Noè e la sua fami­glia escono dall’arca dopo il diluvio universale, quando Egli concede all’uomo di cibarsi di altri esseri viventi con il divieto di strappare la carne da un animale ancora vivo[2].Quest’ultimo divieto è posto a salvaguardia del regno animale, poiché al figlio di Noè, che può cibarsi di tutto il creato, non è consentito far soffrire inutil­mente un animale strappandogli la carne o prelevandogli del sangue senza averlo prima ucciso.
Il popolo d’Israele sperimenta la Provvidenza Divina anche successivamente, quando, dopo essere stato liberato dalla schiavitù in Egitto, viene nutrito nel deserto per quarant’anni, con il cibo del dono che viene chiamato “manna”[3]. Ciò che gli ebrei chiamarono manna è un cibo a loro sconosciuto, di derivazione celeste, che cade dal cielo e non spunta dalla terra. Gli ebrei si sfamano con la manna secondo le regole loro affidate dal Signore che comanda di raccogliere il cibo donato nella misura necessaria al fabbisogno giornaliero, poi­ché non è possibile serbarlo per il giorno successivo senza che produca vermi e imputridisca, salvo il sesto giorno della settimana, in cui la razione da raccogliere è doppia per poter, il giorno successivo, osservare il riposo assoluto dello Shabbat.
La caratterizzazione del cibo come dono della Provvidenza Divina contribuisce a chiarire il valore dell’in­vito espresso dal testo biblico a benedire il Nome di Dio dopo essersi saziati[4] anche attraverso il ringrazia­mento per ciò che è stato donato. Questa Benedizione che si recita dopo il pasto, l’unica a essere esplicita­mente prescritta dalla Toràh viene denominata Birkhat ha-mazon ed è composta da quattro brevi benedizioni, alcune delle quali di ringraziamento per il cibo ricevuto, altre di ringraziamento per alcuni altri doni (la Terra d’Israele, l’Alleanza e la Toràh, la liberazione dall’Egitto) e altre infine di richiesta (pietà per il popolo d’Isra­ele, per Gerusalemme e per il monte Sion)[5]. La Birkhat ha-mazon deve essere recitata, su invito (zimmun) di uno dei commensali, nello stesso luogo in cui si è mangiato, poiché è proibito alzarsi dalla tavola senza aver prima benedetto e ringraziato il Nome del Signore, avendo cura non solo di conservare briciole di pane e sale, rispettivamente simbolo di abbondanza e della ritualità del Tempio di Gerusalemme, bensì anche di togliere o almeno coprire i coltelli, simbolo di violenza[6].
La tradizione rabbinica aggiunge alla Birkhat ha-mazon altre Benedizioni legate al consumo del cibo ed, in particolare, da recitare prima del pasto non solo per allontanarsi da un atteggiamento vorace nei confronti di questo dono bensì anche per ottemperare al dovere di benedire il Nome di Dio all’atto della fruizione di un opera del Signore, poiché diversamente quest’atto corrisponderebbe a quello di rubare in danno del Creatore e della congregazione di Israele[7].
Deve poi essere richiamato un ulteriore episodio della storia biblica, nel quale il popolo d’Israele, liberato dalla schiavitù nella terra d’Egitto, rinnova l’alleanza con Dio[8] poiché è proprio su questa rinnovata alleanza che si fonda l’impegno, liberamente espresso dal popolo d’Israele[9], a rispettare i precetti del Signore manife­statosi come provvidente e liberatore.

Valore spirituale e significato culturale delle regole alimentari ebraiche 


Religione e alimentazione, nell’Ebraismo, costituiscono da sempre i termini di un binomio di forte pregnanza spirituale e cultuale, dalle molteplici declinazioni, nella versione comunitaria come in quella individuale. Il cibo, nella tradizione religiosa ebraica, costituisce non solo uno strumento di elevazione religiosa bensì anche un fattore di identità, poiché il popolo di Israele rispettando le prescrizioni alimentari rinsalda le proprie radici culturali, adegua la propria vita ai precetti biblici e partecipa al progetto esistenziale cui è chiamato. Il dovere di osservare le prescrizioni alimentari è imposto dalla legge ebraica nel momento del raggiun­gimento della maggiore età, fissata in tredici anni per i maschi e dodici per le femmine, e a ciò si aggiunge il dovere dei genitori di illustrare ai propri figli, sin dai primi anni di vita, i principi generali e le regole che disciplinano l’alimentazione ebraica. La tradizione ebraica prescrive un numero consistente di regole alimentari tratte perlopiù da fonti bibli­che, cui pertanto si riconosce origine divina e che in quanto tali rappresentano un capitolo fondamentale e imprescindibile della pratica religiosa. Le norme ebraiche costituiscono modelli di comportamento specifici, che nell’insieme concorrono a delineare un vero e proprio “sistema di vita”, traducendosi in azioni positive e negative, corrispondenti a obblighi di fare e di non fare.
La pratica quotidiana dei rituali alimentari contemplati principalmente nella Toràh non rappresenta esclu­sivamente una condotta personale di adesione e sottomissione alla volontà salvifica del Creatore bensì an­che un’esperienza collettiva che rinnova nel tempo il patto di alleanza con Dio. Le prescrizioni alimentari vanno considerate come una parte delle regole di comportamento: l’uomo, accettando l’ordine posto da Dio nel processo di creazione del mondo, si attiene alle diverse distinzioni rea­lizzate, comprese quelle tra i cibi proibiti e i cibi ammessi. Il termine Kasher (o kosher) sta proprio a indicare l’idoneità del cibo a essere consumato o la conformità della sua preparazione a determinate regole alimentari, l’insieme delle quali convenzionalmente si suole de­finire kascherut: vero e proprio regime alimentare. Il cibo non-kasher è qualificato taref, vale a dire non adatto o improprio e quindi proibito. L’alimentazione si configura, poi, come un rito sacro da celebrarsi in famiglia, centro della vita ebraica, prestando attenzione non solo alla scelta degli alimenti bensì anche ai procedimenti culinari e alle preghiere di benedizione nella loro successione precisa stabilita dai cerimoniali religiosi.
La famiglia riunita intorno alla tavola, che simbolicamente rappresenta l’altare, rimane per gli ebrei lo spazio privilegiato per l’adempimento dei rituali alimentari che regolano l’atto del nutrirsi, trasfigurando il naturale bisogno biologico in un percorso di perfezione terrena al riparo dal male. L’alimentazione, in occasione di festività religiose, ha una particolare funzione sociale: la preparazione di specialità tipiche dotate di un potere evocativo, che richiamando alla memoria riflessiva degli ebrei un episodio o un particolare della storia di Israele, contribuiscono a rinsaldare, in queste circostanze conviviali, i rapporti tra le persone e la solidarietà del gruppo.


[1] Genesi 1:29; 1:30. Si segnala poi: C. Milani, “Il cibo nell’ebraismo”, in Buono e giusto. Il cibo secondo Ebraismo, Cristia¬nesimo e Islam, Milano, Edizioni Terra Santa, 2015, pag. 7
[2] Genesi 9:1. Si segnala inoltre: C. Milani, op. cit., pag. 8 
[3] Esodo 16:12-36.
[4] Deuteronomio 8:11.
[5] Il testo della parte della Benedizione Birkhat ha-mazon, che riguarda più esplicitamente il ringraziamento   per il cibo
ricevuto, è riportato da: C. Milani, op. cit., pag. 15.
[6] Il dato è riportato da C. Milani, op. cit., pag. 16. L’Autrice osserva che l’importanza della Birkhat ha-mazon e dello zimmun è tale che non è richiesta l’età adulta dei commensali; infatti il dovere di recitare la Benedizione sorge anche quando alla tavola sieda un fanciullo di nove anni.
[7] Il dato è riportato da C. Milani, op. cit., pag. 14. Si veda: M. Salani, op. cit., pag. 15: “Come ogni altra realtà del mondo, gli ebrei si rapportano con il mangiare e con il bere secondo l’idea della berakah, della benedizione.” Si segnala anche P. Pedrazzi, op. cit., pag. 62. L’Autrice riafferma che: “Gli ebrei si rapportano con il mangiare e il bere secondo l’idea della berarah, cioè della benedizione. D-o, creatore, dona all’uomo ogni cosa necessaria alla sua esistenza, che pertanto è benedetta da Dio stesso. Tutto è stato creato buono, ma non tutto è a disposizione della creatura che, per distinguere ciò che è permesso utilizzare da quello che gli è vietato, ha bisogno di norme che la orientino.”
[8] Esodo 24.
[9] Esodo 24:7.

*Tratto da Laura Scopel, Le prescrizioni alimentari di carattere religioso

Nessun commento:

Posta un commento