mercoledì 23 marzo 2016

CAFFÈ, VINO DELL'ISLAM



La maggior parte dei moderni bevitori di caffè sono probabilmente inconsapevoli di dover molto del loro giornaliero piacere alle turuq del Sud della penisola arabica. Tradizionalmente si narra che alcuni membri della tariqa Shadhiliyya abbiano diffuso la bevanda del caffè in tutto il mondo islamico all’incirca tra il 13° e il 15° secolo. Venne fatto assaggiare per la prima volta a uno Shaykh della Shadhiliyya, in Etiopia, dove la pianta del caffè cresce spontanea sugli altipiani e dal cui frutto si ricavava una bevanda nota come bun. È possibile che lo shaykh fosse Abu’l Hasan’ Ali ibn Umar, il quale risiedette per un certo tempo alla corte di Sadaddin II, un sultano del sud dell’Etiopia. ‘Ali ibn Umar successivamente fece ritorno nello Yemen con le preziose bacche, cibo commestibile dalle straordinarie proprietà stimolanti. Ancora oggi questo shaykh è considerato il santo patrono dei coltivatori di caffè, dei proprietari dei luoghi dove lo si serve e di tutti i suoi bevitori e amanti. Talvolta, in Algeria, il caffè è chiamato shadhiliyye, in suo onore. 

La bevanda divenne nota come qahwa –termine precedentemente applicato al vino– e anche per gli europei, come “Vino dell’Islam”. Era in uso, nelle turuq, far bollire i semi delle bacche di caffè e bere l’infuso per aiutarsi a rimanere svegli durante lo dhikr. La torrefazione dei chicchi è infatti un processo di miglioramento sviluppato in seguito dai Persiani. Lo shaykh shadhili Abu Bakr ibn al-Abd’Allah ‘aydarus fu così colpito dagli effetti del caffè da comporre una qasida in onore della bevanda. E i bevitori di caffè coniarono anche un termine per indicare l’euforia che produce: marqaha.
Il santo e teologo shaykh ibn Isma’il Ba’alawi di al-Shihr dichiarò che l’uso di caffè, quando preso con l’intento di sostenersi durante la preghiera o i riti, può condurre a sperimentare il qahwa ma’nawiyya altresì detto qahwat al-Sufiyya, simbolicamente affine al soma vedico o all’haoma iranico, bevanda di immortalità che porta, in maniera transitoria, “alla soddisfazione spirituale data dal contemplare i Misteri Nascosti e al raggiungimento di meravigliosi svelamenti”. I dervisci della Shadhiliyya erano, all’epoca del nostro racconto, presenti e attivi in tutte le terre dell’Islam. Si dice che Hazret Pir Abul Hasan ash-Shadhili, santo eponimo dell’ordine, fosse riluttante ad accettare un talib che non avesse già una professione. Divenne così ben presto evidente che i benefici del caffè potevano essere estesi alla giornata lavorativa e quindi anche all’incremento dell’economia locale. Il clima dell’Arabia meridionale era l’ideale per la coltivazione del caffè e i porti dello Yemen, in particolare il porto di Mocha, divennero uno dei principali esportatori al mondo, in quel periodo.
L’utilizzo del caffè giunse a Mecca, dove, secondo lo storico arabo Jaziri, veniva bevuto nella Sacra Moschea, cosicché non v’era dhikr o mawlid durante i quali il caffè non fosse presente.
Attraverso pellegrini, commercianti, dervisci e viaggiatori, il caffè si diffuse in tutto il mondo islamico. Al-Azhar divenne uno dei primi centri dove l’uso del caffè si consolidò e attorno al quale si svilupparono un certo numero di cerimonie e riti. Uno scrittore del 16° secolo, Ibn ‘Abd al-Ghaffar, descrive così gli incontri dei dervisci al Cairo:
“Bevevano il caffè ogni Lunedi e Venerdì[1], mettendolo in un grande vaso di argilla rossa. Il loro shaykh lo versava con un piccolo mestolo e dando loro da bere passava i bicchieri alla sua destra mentre recitavano una delle loro solite formule, per lo più ‘La ilaha illa Allah’.
Un altro rito, praticato in Yemen, prevedeva il consumo di caffè unito alla recitazione di un ratib, l’invocazione 116 volte del nome divino Ya Qawi, “O Possessore di ogni forza!” – non può sfuggire l’accostamento sonoro e semantico con la parola qahwa.
Nel corso del tempo il caffè acquisì un connotato angelico: secondo una leggenda persiana veniva servito al Profeta Muhammad, assonnato, dall’angelo Gabriele. In un’altra storia, Re Salomone, giunto in una città i cui abitanti soffrivano di una malattia misteriosa, sotto la guida di Gabriele, preparò un infuso di caffè torrefatto che curò i cittadini.
All’inizio del secolo 16° il caffè entrò nella sfera più mondana e vennero istituite le cosiddette ‘Case del Caffè’, che trasformarono la vita sociale di tutto il mondo islamico. Questi luoghi, dove certo non mancavano i chicchi, l’attrezzatura e l’esperienza necessarie per preparare un’ottima bevanda, fornivano un ambiente conviviale in cui godere del profumo del caffè. Ahmet Pasha, governatore ottomano d’Egitto durante il 16° secolo, fece costruire con i soldi pubblici un gran numero di caffetterie, ottenendo in tal modo una grande popolarità politica. Nella metà del 17° secolo, due uomini d’affari siriani, Hakim e Shams, introdussero il caffè a Istanbul, fondando la prima caffetteria della città. Visto il successo e la fama ottenute dal caffè nell’impero ottomano, sorse una nuova e redditizia attività economica. Hazret Evliya Efendi[2] scrisse così dei mercanti di caffè di Istanbul:
I mercanti di caffè e i loro negozi sono circa trecento. Grandi e ricchi mercanti, protetti da Shaykh Shadhili, che ha ricevuto l’investitura (spirituale) da Weis-ul-karani, con il permesso del Profeta.
Nel corso dei primi secoli della sua storia nel mondo islamico, la popolarità del caffè generò grandi controversie. Molti erano sospettosi degli effetti della caffeina e le riunioni dove veniva consumato erano viste da alcuni come ritrovo di debosciati, da altri come incontri di sovversivi. Le caffetterie erano più frequentate delle moschee e divennero luoghi di aggregazione per dervisci, musici, lavoratori e criminali, essendo poco soggette al controllo delle autorità[3]. I dotti teologi di Istanbul le chiamavano, ironicamente, Mekteb-i ‘Irfan, “scuole di conoscenza”[4]. E ovviamente, per almeno un centinaio di anni, non mancarono gli sforzi per far dichiarare il caffè un intossicante proibito dalla legge islamica. Evliya Efendi, con altrettanta ironia, descrive la situazione:
Perché il caffè è un’innovazione, che limita il sonno e la capacità di procreare nell’uomo. Le caffetterie sono case della perversione. Per questo il caffè è stato dichiarato illegale, per legge, nelle grandi collezioni di fetwa, dove ogni cosa che viene cucinata è dichiarata cibo illegale.
Durante il Ramadan del 1539 le caffetterie del Cairo furono perquisite e chiuse, anche se solo per pochi giorni. Poco dopo, anche a Istanbul, il Sultano Murat IV le fece chiudere tutte sentenziando che avrebbero dovuto rimanere “nell’oscurità” per il resto del secolo. Ma non appena l’editto del sultano entrò in vigore, gli avventori dei caffè, i loro soldi e la loro vita sociale, si spostarono altrove: A Bursa ci sono settantacinque caffetterie frequentate dai più eleganti e colti degli abitanti. Tutte le caffetterie, in particolare quelle vicino alla grande moschea, abbondano di uomini abili in mille arti. Queste sono molto famose da quando quelle di Istanbul sono state chiuse per espresso comando del Sultano Murat IV  (Evliya Efendi).
I moralisti avevano combattuto una battaglia persa in partenza, perché molti tra i bevitori di caffè provenivano dai più alti gradi della gerarchia religiosa[5] e politica, che non guardava con affetto i divieti giuridici innovativi. La “taverna senza vino” offriva un ritrovo di tutto rispetto per gli uomini, dove socializzare e divertirsi lontano da casa. Gli affari erano particolarmente vivaci nel mese di Ramadan, quando i proprietari, per attirare le folle, invitavano cantastorie e organizzavano spettacoli di marionette.
Nonostante i divieti, le turuq non persero la passione per il caffè e le motivazioni per il suo utilizzo. I dervisci Halveti sono stati tra coloro che, con più entusiasmo, bevevano caffè per promuovere la resistenza necessaria a sostenere i lunghi dhikr. Allorché il caffè divenne disponibile in tutto l’impero ottomano, entrò a far parte, come appuntamento fisso, della vita quotidiana delle derghe Halveti. Ne nacque una leggenda, che collegava gli effetti benefici di una sorgente miracolosa alla tazza di caffè sorseggiata ogni mattina:
Mosslahuddin Mergez, il capo dei dervisci halveti, una volta disse ai suoi fakir: “Ho sentito qui, sotto terra, una voce che diceva: ‘O Sheikh! Io sono una sorgente di acqua rossastra imprigionata in questo posto da settemila anni, e sono destinata a venire in superficie tramite il tuo impegno [per liberarmi], come rimedio contro la febbre. Liberami dunque dalla mia prigione sotterranea”. Ciò detto tutti i suoi fakir cominciarono a scavare un pozzo assieme a lui, fino a che zampillò dalla terra dell’acqua dolce di un colore rossastro, che, se bevuta al mattino con il caffè, è un rimedio controllato contro la febbre. È conosciuta in tutto il mondo con il nome del Ajasma[6] di Mergez (Evliya Efendi).
In Persia, le caffetterie diventarono, ben presto, focolai di lascivia e dispute politiche, poco dopo essere state introdotte, all’incirca nello stesso periodo in cui giungevano a Istanbul. Shah Abbas I (1557-1629) pose rimedio a questa situazione nominando un mullah a capo di una nuova istituzione della capitale, Isfahan, che aveva il compito di inviare alcuni uomini, la mattina presto, presso le maggiori “Case del Caffè”, a parlare di religione, storia, shari’a e poesia, incoraggiando poi coloro che erano lì riuniti a uscire fuori per recarsi al lavoro. Sebbene le caffetterie fossero frequente dai più svariati tipi umani si cercò di promuovere un ambiente sociale piuttosto pio e tranquillo. Poeti, mistici, dervisci di tanto in tanto sceglievano come residenza permanente una o l’altra delle caffetterie. Per esempio, Mollah Ghorur di Shiraz si stabilì a Isfahan nella sua vecchiaia e proprio in un caffè, che divenne ben presto luogo di ritrovo per coloro che cercavano una guida spirituale.
Il viaggiatore francese del 17° secolo Jean Chardin ci ha lasciato una bella descrizione della vita nei caffè persiani:
La gente è impegnata in conversazioni, perché è lì che si comunicano le notizie e dove coloro che sono interessati alla politica criticano il governo in tutta libertà e senza timore, dal momento che il governo non ascolta quello che la gente dice. Alcuni si intrattengono con giochi innocenti, simili a dama, a campana e agli scacchi. Inoltre, mollah, dervisci e poeti, a turno, raccontano storie in versi o in prosa. Le narrazioni dei mollah e dei dervisci sono lezioni morali, come i nostri sermoni, ma non è considerato scandaloso non prestarvi attenzione. Nessuno è costretto a rinunciare al suo gioco o alla sua conversazione. Un mollah sta in piedi nel mezzo, o a una estremità della qahveh-Khaneh, e comincia a predicare ad alta voce; un derviscio entra tutto ad un tratto, parlando della vanità del mondo e delle ricchezze. Accade spesso che due o tre persone parlino allo stesso tempo, uno da una parte, l’altra sul lato opposto, e, talvolta, uno è un predicatore, l’altro un narratore di storie.
In valigie private, il caffè giunse a Venezia nel 1615, a Marsiglia nel 1644, e a Londra nel 1651, senza però fare il suo debutto ufficiale in società fino al 1669, quando venne fatto conoscere ai parigini dall’ambasciatore turco, Suleyman Mustafa Hoca. Entro la fine del secolo il caffè viene di moda in tutta Europa, e di lì la coltivazione e l’utilizzo si diffusero in Nord e Sud America. Ovunque è stato introdotto è diventato un simbolo di ospitalità e un veicolo di socialità. L’attuale popolarità del caffè è, senza dubbio, solo una risposta ai progetti di marketing di produttori e ristoratori intraprendenti. A noi lascia una certa nostalgia, invece, perché ripensiamo a quella compagnia spirituale di cui godevano i dervisci della Shadhiliyya, seicento anni fa, mentre si riunivano per ricordare Allah, passandosi il bicchiere di caffè di mano in mano.




[1] Il rito si svolgeva nel tempo del maghrib, che dà inizio al giorno in questione.
[2] Shaykh Mehmet Zilli (1611-1682) detto Evliya Çelebi è un santo appartenente alla Khalwatiyya del ramo egiziano Gülşenî. Grande viaggiatore, riporta nei suoi libri diversi aneddoti. Uno dei più curiosi lo vede a Rotterdam nel 1663 dove, ospite, incontrò alcuni nativi americani. Scrisse: “[Essi] maledicevano quei gesuiti, dicendo: ‘Il nostro mondo era in armonia ma poi è stato riempito da avide genti che fanno guerra ogni anno e accorciano le nostre vite.’”
[3] Non deve stupire questo fatto. Se ne trova un parallelo, per esempio, nelle cantine (borracheras) di Città del Messico dove solo da pochi anni è stato tolto il divieto di entrata alle donne, mentre resta in vigore per chiunque indossi la divisa.
[4] Sebbene la parola ‘irfan debba essere tradotta con “gnosi”, optiamo qui per “conoscenza” in modo tale da suggerire l’incomprensione di cui erano vittime i sapienti dell’epoca.
[5] Sarebbe meglio dire “iniziatica” visto che grandi santi, come lo stesso Evliya Efendi, bevevano il caffè.
[6] Ajasma significa “fonte” o “fontana”, ma in questo caso, per metonimìa, viene accostata all’acqua stessa, l’acqua di Mergez. Innumerevoli sono i rimandi alle fonti sacre. Prima fra tutte quella di Zam Zam, poi la fontana della vita di Hazret Khidr. Da non dimenticare la battaglia di Kerbala, che vede l’Imam Husayn, impegnato nel suo ultimo scontro con Ubaydullah, il quale si era posto tra lui e l’acqua del fiume Eufrate, battere con la spada il terreno per far sgorgare acqua dolce.

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