
Propongo la prima parte del “Manifesto
sul futuro del cibo” perché ritengo che la lettura di testi che forniscono
informazioni in controtendenza possa essere di qualche utilità per acquisire
qualche informazione in un mondo che tende a standardizzare tutto. Purtroppo
anche la dove ci sono le migliori intenzioni spesso si finisce per collocarsi sotto
qualche etichetta, ecologismo, biologismo, biodiversità, sostenibilità, ecc.
che a mio avviso, cercando di definire e circoscrivere, riescono a complicare
ciò che invece è molto semplice e riguarda prima ancora che l’ambito sociale,
quello della coscienza personale. Basterebbe, se si vuole, recuperare uno stile
di vita consono alle reali necessità, quello che nei paesi occidentali era
ancora ravvisabile nelle nostre campagne trent’anni fa quando l’industrializzazione
spinta non le toccava ancora; si rispettava la terra e quello che produceva,
quindi non si sprecava e si rispettava la stagionalità; ma si commerciava anche
e ci si impegnava per distinguersi nell’eccellenza della produzione e della
lavorazione del prodotto. Basterebbe cominciare dal non lasciare il rubinetto
dell’acqua più aperto del necessario, o pretendere di mangiare le ciliegie d’inverno,
ma anche non lamentarsi se l’olio e il vino hanno un po’ di fondo e qualche
mela non è proprio tirata a lucido: questo confermerebbe un primo piccolo passo
in controtendenza, rispetto a una mentalità fagocitata da mille suggestioni.
Il MANIFESTO SUL FUTURO DEL CIBO
Parte Prima
INTRODUZIONE: fallimento dell'agricoltura industriale
La spinta crescente
verso l’industrializzazione e la globalizzazione del mondo agricolo e
dell’approvvigionamento alimentare mette in pericolo il futuro dell’umanità e
il mondo naturale. Efficienti sistemi agricoli costruiti dalle comunità
indigene locali hanno alimentato gran parte del mondo per millenni, mantenendo
l’integrità ecologica e continuano a farlo in molte parti del pianeta. Ma oggi
vengono rapidamente sostituiti da sistemi tecnologici e monocolture controllati
dalle multinazionali e finalizzati all’esportazione. Questi sistemi di gestione
manageriale a distanza incidono negativamente sulla salute pubblica, sulla qualità
alimentare e nutritiva, sulle forme tradizionali di sussistenza (sia agricole
che artigianali) e sulle culture indigene e locali, accelerando l’indebitamento
di milioni di agricoltori e il loro allontanamento dalle terre che hanno
tradizionalmente nutrito intere popolazioni, comunità e famiglie. Questa
transizione aumenta la fame, i senza tetto, la disperazione ed i suicidi fra i
contadini. Nel contempo degrada i processi su cui si fonda la vita sul pianeta
e aumenta l’alienazione della gente dalla natura e dai legami storici, culturali
e naturali degli agricoltori e di tutti gli altri cittadini con le fonti di
cibo e sussistenza. Contribuisce, infine, a distruggere le basi economiche e
culturali delle società, minaccia la sicurezza e la pace e crea un ambiente che
produce la disintegrazione sociale e la violenza.